Vito Scafidi

Occhi grandi e pieni di cielo. Uno sguardo vivace. Un viso serio. Questo è Vito. Un diciassettenne come ce ne sono tanti, a cui piacciono il calcio, i romanzi fantasy e i film d’amore. Un ragazzo con tanta voglia di vivere. Gli piace riuscire in ciò che fa e ce la mette tutta: non vuole dimostrare nulla agli altri, ma solo a sé stesso. In perenne competizione per definire la sua personalità: studia, fa sport, si informa, è curioso e preciso. Preciso, puntuale, ligio alle regole, ma regole autoimposte, fatte di piccoli rituali. La sveglia al primo colpo al mattino, senza lagnarsi. Sempre presente ad allenamenti e partite di calcio, anche se spesso scalda la panchina. Si mette il casco in testa quando va a sciare, anche se non è obbligatorio.

Un ragazzo che è nato vedendo davanti la sua strada, sapendo che passi doveva fare per arrivare dove voleva. Con qualche grande ambizione, come quando in prima elementare ha detto che voleva fare il Papa o il Presidente della Repubblica. Guardando avanti con serenità e sempre proteggendosi dal pericolo. Ha cura di sé. Si fa prenotare le visite mediche di anno in anno, per tenere sott’occhio i nei, per controllare i denti, per far sparire l’acne. Conserva meticolosamente i biglietti del cinema e dello stadio, tiene tutte in fila le magliette dei calciatori che ammira: non solo quelli della sua squadra, ma tutti quelli che giocano bene, che lo fanno sognare di diventare un grande calciatore.

A scriverlo il profilo di Vito, quasi non sembra vero. Un teenager è per antonomasia turbolento, casinaro, spendaccione, sbadato… Gli errori che si fanno a diciassette anni si ricordano tutta la vita. Si ruba la macchina a papà, qualche volta si mettono le mani nel portafoglio di mamma, qualche materia a settembre, il cuore a pezzi per una ragazza. Basta prendere tutti questi elementi e capovolgerli e si ottiene Vito: non insiste per avere il motorino, mette da parte le mance e i regali dei nonni e si compra da solo i vestiti che vuole, studia e riesce a cavarsela in tutte le materie, d’estate va a lavorare con suo padre e fa il manovale in cantiere. Senza fare storie. Senza aver bisogno di essere richiamato.

Con la sorella Paola condivide il primo piano dell’appartamento, contendendosi il computer e scambiandosi la musica. Come venerdì 21 novembre. E’ sera, quasi ora di andare a letto.  Dalle casse del computer si sente la voce di Francesco De Gregori, che canta “La donna cannone”. Vito si innamora di quel canto di dolore. Lo ascolta e lo riascolta. Si scarica la canzone sul cellulare, per portarla con sé. E’ la canzone che lo accompagna nell’ultima notte di sonno nel suo letto.

Giocava a calcio nel Pianezza negli ultimi due anni e si allenava due volte alla settimana, la partita era il sabato pomeriggio. Anche se stava in panchina, non perdeva mai un momento di sport con la squadra. Il giovedì prima del crollo, il 20 novembre, Cinzia come sempre lo aveva accompagnato ad allenamento e poi era andato a riprenderlo. Una sera d’autunno come tante, ci si ferma per strada a prendere una pizza da portare a casa, e Vito fa alla mamma una strana domanda “Mamma, Sai come muore una persona?”. Cinzia guida e un po’ perplessa gli risponde di no. Così Vito va avanti e mima l’ultimo respiro ”Inspirando. Lentamente. Se mi dovesse succedere qualcosa dona i miei organi, voglio salvare altre persone”. Cinzia sempre più perplessa gli chiede perché dica queste cose, di non pensare alla morte. Già qualche sera prima, a tavola, aveva fatto un discorso simile alla famiglia, dicendo che in caso di morte voleva essere seppellito con una pila, il cellulare e dei soldi, nel caso in cui si fosse risvegliato dall’ultimo sonno.

La mamma Cinzia racconta “Sabato mattina, il 22 novembre 2008, è sceso dalla mia macchina. È salito sulla macchina di mia sorella, ha poggiato la mano sul vetro e mi ha guardato. Una voce nell’orecchio mi ha detto <E se fosse l’ultima volta?>”.

Ho sempre avuto quest’ansia con lui, mi pareva che avesse la linea della vita corta sulla mano. Fortunato mi rassicurava, dicendo che anche suo papà ha la linea segnata così, sul palmo. Ma io avevo questa sensazione da sempre, da quando era piccolo. Spesso lo aspettavo dalla finestra, al ritorno da scuola, e quella voce mi veniva nelle orecchie <pensa se è l’ultima volta che lo vedi su questa strada?>. Non so perché, ma è sempre stata un’ossessione per me, una sensazione solo nei suoi confronti che non mi mollava mai.” Un sabato mattina come tanti, la mamma e la sorella vanno al mercato, con le altre donne della famiglia, il papà esce per commissioni di lavoro. Vito va a scuola. Il sabato al Liceo Darwin si va a scuola. Una mattina come tante. Dolcevita nera, tuta. Da un paio di giorni c’è un vento forte a Torino, che viene giù dalla Val Susa, un vento che spazza le foglie, sbatte le porte, rompe qualche vetro. Anche a scuola oggi si sente il vento che sbatte. Le finestre sono chiuse. E’ novembre, la temperatura autunnale lascia il posto a quella invernale. Le prime ore passano tranquille. Nessuna interrogazione. C’è lezione stamattina.

Poi arriva l’intervallo. Chiacchiere e sgranchirsi le gambe, fuori dal banco, in corridoio. Con i compagni di classe, gli amici di sempre. In piedi, davanti al banco di un compagno, parlottando con Andrea. E’ ancora intervallo. Alcuni sono fuori, altri stanno rientrando, la prof. deve arrivare, c’è ancora tempo per qualche battuta.

Il buio.

10.45.

In un attimo finisce tutto.

Finisce la voglia di Vito di diventare grande, fare l’imprenditore come papà o il chirurgo come vuole mamma? Non c’è più nessun desiderio che valga la pena di essere sentito, nessuna canzone da ascoltare, nessuna partita da giocare. Lo sguardo rimane fisso. Nel vuoto del pavimento della IV G. Intorno è polvere, vetro, acciaio, ma soprattutto ghisa. Pare che 149 kg di ghisa abbiano travolto Vito. Un tubo, che assieme ad altri tubi tagliati, a detriti, a mattoni, a blocchi di agglomerato cementizio, erano stati stoccati nel controsoffitto del Darwin.